Più che un “modenese nel mondo” è un “modenese globetrotter”. Dario Caccamisi, 54 anni, agronomo ha quattro passioni: le Trabant, il Genoa, il Boca Juniors e la montagna; vive a Guiglia, ma viaggia per lavoro in ogni parte del mondo ed è stato in quasi trenta paesi dell’Europa centro-orientale, ex-Unione Sovietica, Africa, Sud America, Caraibi, Asia e Oceania. Attualmente si trova in Afghanistan, ma appena terminata la sua missione in Medio Oriente sarà in Swaziland, nel sud dell’Africa. Ha iniziato la sua carriera come direttore del mercato ortofrutticolo alla produzione di Vignola, ma ben presto ha preso il volo e da una ventina di anni compie progetti per conto della Bce, la Banca Europea, della Fao e della Banca Mondiale.
La sua missione a Kabul riguarda, appunto, uno studio per un progetto finanziato da World Bank sul settore agricolo in quattro province afghane, due nel centro, una nel nord ed una a occidente, Herat, al confine con Iran e Turkmenistan. Deve, in pratica, lavorare sodo per raccogliere i dati che serviranno a compilare un programma di sviluppo del Ministero dell’agricoltura al fine di promuovere la crescita dell’agricoltura e di alcuni settori collegati in quelle quattro province.
“La mancanza di informazioni e di importanti possibilità di ottenere le notizie che servirebbero per il nostro lavoro è una delle difficoltà più rilevanti. D’altronde, era probabilmente inevitabile che lo stato di guerra permanente che affligge il paese dal rovesciamento della monarchia negli anni Settanta lasciasse qualche effetto negativo – ha continuato – lo stesso database statistico della FAO, peraltro molto completo, ancora non comprende l’Afghanistan”.
La mancanza di informazioni è solo uno dei tanti disagi che Dario Caccamici insieme ad un collega italiano stanno incontrando nella loro missione in medio Oriente.
“Oggi, ad esempio – racconta – siamo usciti per due riunioni. La prima è andata bene, la seconda è saltata perchè il nostro collega locale ed il taxista non sono stati in grado, in quasi due ore, di trovare l’ufficio che dovevamo visitare. Nessuna delle guardie – hanno chiesto informazioni a molte guardiole – conosce molto di quello che sta loro intorno, non credo tanto per paura, quanto piuttosto per la concentrazione sul luogo che stanno difendendo”.
E non è difficile immaginare che uno dei principali problemi che Caccamisi e i colleghi si trovano a risolvere è proprio legato alla sicurezza.
“La sicurezza in città è un punto interrogativo – continua – la nostra ambasciata è molto attiva e ci informa quotidianamente sulle aree a rischio, sui punti della città che sarebbe meglio evitare per il rischio di attentati e sulle strade più pericolose. La presenza di così tanti armati mette certamente inquietudine, però la vita della città, che comunque si muove e corre – a Kabul ci sono quasi 5 milioni di persone – porta quella tranquillità che permette di affrontare la giornata in modo più rilassato, ma sempre con estrema attenzione”.
Kabul in effetti non è come una delle tante altre città che Dario Caccamisi ha visto nel suo lavoro, ed è facile immaginare anche perchè. Prima della partenza, era comunque difficile per lui immaginare come si sarebbe presentata.
“Ho aspettato di vedere la realtà – continua – sono arrivato il pomeriggio del venerdì, giorno di festa nei paesi musulmani, dopo un lungo e sfortunato viaggio via Schiphol e Dubai. Le indicazioni non adeguate non mi hanno fatto incontrare il pulmino dell’hotel che mi era stato inviato, così, dopo un’ora di attesa, ho preso un taxi. Un’auto sgangherata con guida a sinistra all’inglese – ce ne sono tante, qui. Viaggio tranquillo, l’autista è anziano, gentile a dispetto dell’insistenza d’avvoltoio con cui ha atteso che il mio pulmino non arrivasse per poi caricarmi. Mi ha fatto pagare qualcosa di più del dovuto e mi ha fregato sul cambio, ma questo già lo sapevo. Così come sapevo che le istruzioni di sicurezza ricevute ed imparate nei molti corsi precedenti mi impedivano di restare a lungo fermo in uno stesso posto, specie verso l’imbrunire”. Diciamo che non c’erano alternative.
“Quello che colpisce di più – aggiunge – è l’enorme spiegamento di filo spinato – ce n’è dappertutto, e la presenza costante di militari armati. Non solo a guardia di ogni edifico, negozio, albergo, ma anche a bordo di pick-up con armi anche pesanti. E poi, le macerie, i buchi, le case mezze costruite – o mezze distrutte – ed infine, soprattutto, la polvere. Pensavo che dopo le piste del Ghana ed i cantieri di Tirana difficilmente avrei incontrato un posto più polveroso. Mi sbagliavo. A volte si incontrano nubi polverose che paiono nebbia. Molti abitanti locali si attrezzano con improbabili mascherine sulla cui utilità ho vari dubbi. Alcune organizzazioni internazionali sadicamente dichiarano che a Kabul si muoia di più per l’inquinamento che per la guerra. Non so se sia vero, ma certamente l’inquinamento atmosferico non scherza e a medio-lungo termine sarà un serio problema da affrontare”.
24 giugno 2011